Una strada che non porta a nulla

Una strada che non porta a nulla
Illustrazione originale di Aris (Romina Beneventi)

martedì 15 aprile 2014

I colori di Miki


-One Fine Day-

-testo di Rumigal
-foto di Komno Photografy




A Miki sono sempre piaciuti i colori. Quando era piccola, e magari all'asilo chiedevano di disegnare qualcosa, tipo la propria famiglia, o la propria casa, lei riempiva sempre i fogli di colori. E le sue maestre pensavano fosse scema, infatti.
Crescendo poi questa sua passione non è mai passata, anzi. Ha sempre amato circondarsi di colori, sui vestiti, o nella sua stanza, con i suoi giochi. E quando vede un fiore i cui colori la colpiscono, lo coglie e lo stringe a se finché poi non lo lascia andar via.
Adesso se ne sta seduta sul bordo della Strada, con il fiore che le gira tra le dita, le gambe magre e chiare che si muovono nel vuoto. Guarda le sue nuove scarpe, tacchi rossi che li vedresti da un miglio di distanza.
"Ma perché hai comprato quelle scarpe da puttana altolocata?" fa il Volgare, mentre si rolla una canna, l'ennesima della serata.
"Perché io sono una puttana, Volgare! Quante volte te lo devo ripetere?"
Lui sorride, mentre Martine, dentro la macchina, russa dopo essere crollata mentre arrivavano qui. John D. invece è rimasto direttamente a casa, morto sul letto.
Erano usciti di casa, per farsi un giro, quando avevano beccato Miki che passeggiava da sola. Avevano visto quelle scarpe prima di vedere lei in realtà. L'avevano fatta salire ed erano venuti qui.
"Allora, Miki, come mai te ne stavi in giro da sola, senza i tuoi nani?"
Il Volgare prende sempre in giro Jhonny, Morgan e Jack e il loro gironzolare sempre intorno a Miki.
"Avevo solo voglia di passeggiare da sola e magari attirare qualche cliente con le mie nuove scarpe."
"E hai beccato me."
"Sono stata fortunata, no?"
Il Volgare la raggiunge sul bordo, si siede e accende la canna. Il fumo esce dalla sua bocca lentamente, mentre entrambi guardano l'enorme pianura che si staglia davanti a loro, e il cielo che sembra persino più grande, visto da qui.
"Tu invece? Come stai? E' da tanto che non ci facciamo una bella chiacchierata io e te."
Lui rimane un po in silenzio, mentre cerca di mettere ordine in tutto ciò che ci sarebbe da dire. Se sei mesi fa gli avessero detto che sarebbero cambiate cosi tante cose nella sua vita, non ci avrebbe creduto.
"Jade l'hai più sentita?" chiede ancora Miki.
"No. No, e non credo la sentirò più. Credo di essere stato preso abbastanza per il culo per tutto il resto della mia vita. E poi immagino che non tornerà spesso qui in Città, quindi non c'è pericolo di ribeccarla."
"Ma tu invece che hai intenzione di fare?"
"In che senso?"
"Con la tua vita. Cioè adesso cosa stai facendo?"
"Sono tornato a lavorare in fabbrica, da mio zio. E' un lavoro che non mi da troppo da pensare e riesco a mettere qualche soldo da parte. Poi non so. Non riesco a pensare a niente di più grande per adesso."
Fino a sei mesi fa, la situazione del Volgare era felice.
Era fidanzato con Jade da quattro anni e qualche mese, e stavano convivendo da un anno. Aveva persino ricominciato con gli esami dell'università. E stava pensando di chiedere a Jade di sposarlo. Una cosa talmente assurda che l'aveva detta solamente a Martine e John D., i suoi migliori amici, le persone che più di una volta si erano rivelate una famiglia più importante di quella che l'aveva messo al mondo.
Poi però aveva scoperto che Jade in realtà non aveva alcuna intenzione di restare con lui. Aveva scoperto che per lei quella storia era poco più di un passatempo. E che aveva di lui la considerazione che avrebbe potuto avere di... di un amico, forse. Con cui farci sesso, con cui condividere un appartamento. Ma restarci assieme? Mai nella vita. E difatti lei aveva finito la triennale, si era fatta regalare per la laurea una settimana a Barcellona dal Volgare che aveva sgobbato come un mulo per permetterselo e senza dirgli nulla, si era già messa d'accordo con una sua amica di Londra per farsi ospitare, dato che voleva continuare l'università li. Qualche giorno dopo il ritorno dalla Spagna lei gli aveva spiegato tutto. Gli aveva detto che era stato bello, non lo avrebbe mai dimenticato e sarebbe stata felice di continuare a considerarlo un amico, ma lei di certo non poteva rimanere in quella Città senza futuro, lo capiva anche lui, no?
La cosa aveva spiazzato un po tutti, perché a quanto pare nessuno sapeva niente di questi progetti di Jade, né conoscevano questa fantomatica amica di Londra, cosa che aveva spinto in molti a pensare che forse la realtà era persino più umiliante per il Volgare.
Il Volgare quindi era andato via di casa, tornando a stare dai suoi. Aveva smesso di nuovo di fare gli esami. Era tornato a lavorare in fabbrica. Era stato come perdere quattro anni della sua vita. Un totale reset. Da cui in realtà sta cercando di riprendersi, poco alla volta.
La cosa più difficile comunque è svegliarsi la mattina e ricordare i bei momenti. Ti fa incazzare ricordare la dolcezza vissuta con una persona che te lo ha messo in culo per quattro anni.
"Ma te invece? Che mi dici, Miki?"
Lei si guarda le scarpe rosse, facendo ciondolare le gambe.
"Io non dico niente, Volgare."

Dopo un po sentono il rumore di una macchina che arriva, la macchina di Jhonny. Scendono lui, Morgan e Jack.
"Ecco i tuoi nani, Biancaneve" fa il Volgare sorridendo.
Li raggiungono alla fine della Strada, Jack con una canna in mano, Morgan con una bottiglia di Rhum.
"Volgare, avessi saputo che eri qui, te ne avrei portata una."
"Naa, tranquillo, non mi va molto di bere."
"Cazzo, ma cos'è questa mania del non bere che vi sta venendo a tutti?"
"Parla per loro e porta qui quel Rhum, Morgan!" fa Miki, schiudendo il suo sorriso lentamente.
Morgan la raggiunge, si siede accanto a lei.
"Pensavo di vederti al Groove, stasera, c'erano gli 'Alice in the Cruel Sea'."
"Si, lo so, ma avevo voglia di fare una passeggiata da sola. Poi ho beccato il Volgare e Martine e siamo venuti qui."
"E Martine dov'è?"
"Sta russando in macchina."

Quando la bottiglia di Rhum è finita, e il fumo anche, arriva la stanchezza. Mancano ancora troppe ore all'alba.
"Che dite, andiamo via?" fa il Volgare, gettando un mozzicone di sigaretta nel vuoto.
"Ricordi quando ci cadde la tua scarpa, nel vuoto?" gli fa Miki, ridendo.
"Lascia stare. Non mi ubriacherò mai più qui."
"Avrai lasciato un cratere la sotto. Quanto porti di scarpe, Volgare? 58?"
"Hai sbagliato di dieci."
"Va beh dai, io me ne vado. Chi viene con me?" fa Jhonny, facendo roteare le chiavi.
Morgan si alza, chiede a Miki cosa farà ma lei risponde che tornerà con il Volgare.
"Ci sentiamo domani allora."
Vanno via, e dopo un po anche il Volgare sale sulla sua macchina.
Miki invece resta ancora qualche secondo li, a guardare l'intenso cielo stellato, il colore dell'universo che le da questo strano senso di vertigine. Come se volare via non fosse poi cosi impossibile.
Lascia andare il fiore che aveva colto prima di venire qui, mentre passeggiava da sola per le strade solitarie di una Città che forse dopotutto ama. E lei lo sa che per loro tutti rappresenta qualcosa di più che un luogo dove abitano. La Città, probabilmente, per tutti loro finisce proprio su questa Strada.
Per alcuni istanti il fiore sembra quasi rimanere sospeso, sotto lo sguardo di Miki. Potrebbe continuare a volare in eterno fino ai confini dell'universo. Ma poi una leggera brezza la trascina via, chissà dove.
Miki allora si alza e raggiunge il Volgare in macchina, mentre Martine continua tranquillamente a russare.
La serata è finita.

giovedì 10 aprile 2014

Le risposte


-testo di Rumigal
-foto di Marìka Moretti



Quando ero piccolo, mio padre era una sorta di super uomo, di quelli che lo guardi e pensi che davvero niente possa sconfiggerlo. E in effetti era davvero cosi. Poteva risolvere tutti i problemi, aveva sempre la risposta a tutto. E sono cresciuto con l'idea che anche io in qualche modo avrei scoperto tutte le risposte diventando genitore a mia volta.
Eppure adesso mi sembra di non sapere niente. Tu sei in quel letto d'ospedale da cui non ti alzerai mai più, ed io non so niente.
Quando il dottore ci ha spiegato l'entità del danno, ho guardato tua madre. Lei è rimasta impassibile. Lei è forte. Io invece non sono riuscito a trattenermi. Ho dovuto piangere per non esplodere davvero.
Ci ha detto che non camminerai mai più, che anzi, non potrai muovere più alcuna parte del tuo corpo sotto il collo. Potrai parlare, quando ti sveglierai, potrai pensare. E noi saremo li con te, ogni giorno. 
Ma non riesco ad esserci adesso. Ti vedo in quel letto, anche adesso che sono qui, e penso che non so che fare. Penso che mio padre avrebbe saputo cosa dire, invece, quale sarebbe stata la cosa giusta da fare.
E' che siamo sempre abituati a pensare in grande. Anche se non lo facciamo consciamente, anche se magari ci ripetiamo sempre che la vita può cambiare all'improvviso. No, in realtà pensiamo sempre di poter sfuggire alle meschinità della vita.
Perché dovevi essere in quella macchina, su quella strada, in quel momento? Sarebbe bastato cambiare uno di questi dettagli, e non sarebbe successo niente. E quando ti sveglierai, dovremo anche dirti che la ragazza che era con te in macchina è morta. E neanche la conoscevamo.
Ecco, questa è un'altra cosa che mi ha spaventato. L'idea di non conoscerti davvero, che magari ho sprecato del tempo e non ti ho conosciuto come avrei dovuto. Ho realizzato che ci sono milioni di cose che voglio sapere, che ho bisogno di sapere da te. Anche cose sciocche, come sapere se ti piace il nome che ti abbiamo dato.
"Thomas"
Era il nome del fratello di tua madre, a cui lei era molto legata, anche se morì quando era piccolo. Forse è per questo che lei ha reagito così, quando ti ha visto. In qualche modo lei è abituata, chissà.
Ricordo che una volta mi disse proprio questo, che aveva sperimentato il dolore più grande quando era troppo giovane per capirlo ed elaborarlo. Cosi lo aveva semplicemente fatto suo. Senza capirlo o perderci troppo tempo, senza porsi domande.
"L'elaborazione è la condanna dell'età adulta. I bambini sono più fortunati invece."
Mi chiedo se tu sei mai venuto qui, su questa Strada. Io non ci ero mai venuto per esempio. Dev'essere un bel posto dove portare una ragazza. Magari quando c'è stato l'incidente stavi venendo qui. Oppure no. Magari stavi andando a casa sua, magari stavate andando al cinema a vedere "Captain America". Magari stavate solo facendo un giro e l'intero ordine delle cose ha fatto si che tu passassi li in quel momento, cosi che la macchina ti sfuggisse dalle mani per andare contro un muro. E poi tutto si è interrotto. Come questa strada.
Non so perché, ma mi torna in mente una festicciola che facemmo nel cortile di tuo nonno. Forse era un tuo compleanno. Si, credo fosse per i tuoi sette anni. C'erano anche i tuoi compagni di classe, e giocavate come non ci fosse un domani. Ricordo le tovaglie sui tavoli, di colore giallo come il vestito di tua madre. Ricordo tua nonna che cercava di rincorrervi ma voi eravate più veloci e allora il nonno vi tese una trappola, spostando velocemente i tavoli e le sedie mentre voi eravate impegnati a scappare via. E ci finiste dentro, come i bambini che eravate.
E' un bel ricordo, non trovi?

martedì 1 aprile 2014

Speranza




-testo di Philgrim
-illustrazione di Aris
http://blog-aris-blog.blogspot.it/


E' roba che ti fotte il cervello, dico davvero.
Evita di rimuginare sulla tua vita quando la notte non ti viene sonno; una volta tanto quelle frasette da radical chic di facebook hanno ragione.
Ti risvegli e scopri di essere immerso in quella che adesso viene definita la crisi dei 25 anni. Improvvisamente tutto il casino che ti circonda ha un nome e, apparentemente, anche un motivo. Peccato che te, quel motivo, proprio non riesci a capirlo. Neppure se te lo sbattono nero su bianco. Hai iniziato l'università con un sogno, un'idea precisa e limpida stampata nella testa. Roba che nemmeno la venuta dell'apocalisse poteva farti cambiare idea.
Illuso.
Eri un ragazzino che del mondo non sapeva nulla. Adesso sei lì, sei ancora in quell'università – che per inciso non è la stessa dove hai cominciato, rientrando per di più nella categoria demoniaca dei “fuori corso” – e ti domandi cosa farai fra 3 mesi. Le tue certezze sono andate in frantumi, come la famosa cristalleria invasa dall'elefante. Un elefante che si chiama realtà, talmente fredda e crudele che spesso ti chiedi su quale diamine di pianeta hai vissuto fino ad ora per non vedere il muro verso cui sei lanciato. Come hai fatto a non vedere prima i segnali?
“C'è la crisi” dicono, però omettono sempre di aggiungere chi l'ha causata. Una tua idea ce l'hai, te la sei fatta – finalmente – dopo anni di ascolto silenzioso. Che poi, a voler essere completamente onesti, la crisi è forse la più grande fortuna che poteva capitare a questa società. Alla “civiltà occidentale”. Ce ne sarebbe da parlare per ore, iniziando col dire che siamo una civiltà che affonda le sue radici nel sangue delle altre, ma poi perderemmo la bussola e finiremmo a parlare di come la politica faccia schifo e di come siano incapaci quelli che ci governano. Come se a mandarli lì fosse stato qualcuno diverso da noi. No no, la cosa andrebbe veramente troppo per le lunghe.
No, qui si parla di te.
Eravamo rimasti al sogno universitario. Un florido periodo di studio e crescita personale che sarebbe poi sfociato nel lavoro dei tuoi sogni. Quel sogno è andato a puttane ben prima che tu te ne rendessi conto, e, se può farti sentire meglio, non è completamente colpa tua. Hai fatto degli errori, alcuni grossolani, altri dettati dall'ignoranza, ma non sei stato il solo a sbagliare.
Mal comune mezzo gaudio. Che stronzata.
Se tutti stanno male, dove diamine dovrebbe stare il gaudio della situazione? Perfino tu hai dubbi, ti rendi conto? Tu, che gli amici avevano definito La Montagna, su cui potevano riposare in attesa di riprendersi; tu con i tuoi ideali ad illuminarti il cammino, a fungere da faro per quanti ti stavano intorno. Hai scoperto di aver edificato sul terreno sbagliato.
Stai affondando con la montagna, il faro e tutto il resto.
Stai ridimensionando le tue aspettative per adeguarle al nuovo mondo che hai scoperto alla fine della tua crociera spensierata. Però non ti dai per vinto. Sai che sei stato sconfitto, ma comunque non riesci a mollare la presa. Cosa ti spinge ad andare avanti? Forse hai visto troppi film, o letto troppe storie eroiche, per arrenderti così, alla prima caduta. Sei uno di quei nerd convinti di essere l'unica salvezza dell'umanità in caso di apocalisse zombie. Ti senti fondamentale e questo, lo ammetto, ti fa onore. Magari ti fa apparire un po' megalomane, ma resti comunque in piedi e non è da sottovalutare.
C'è sempre speranza, ti vai ripetendo come un mantra.
Magari non qui e non ora, ma c'è. Ciò che non ti uccide ti rende più forte.
Forse.Sicuramente ti rende più cinico, ma almeno sei ancora vivo e questo è già un gran bel successo visti i tempi che corrono. Quel che ne sarà di te fra dieci anni non hai nemmeno la voglia di immaginarlo, ma l'importante è non mollare la presa sul presente. Sii consapevole che la vita non sarà rose e fiori, ma che comunque vada tu meriti di meglio di quello che qualcuno vuole propinarti come inevitabile. Tienitelo stretto, difendi con le unghie e con i denti quel centimetro di speranza che ti rimane, perché da quello ricostruirai la tua isola nel cielo. Che poi ti guardi intorno e vedi che a molti neppure sembrano sfiorare tutti questi dubbi che ti bloccano i pensieri.
Ti senti improvvisamente fuori posto, come nato nell'epoca sbagliata.
E' probabile, non lo nego, che con l'animo che ti ritrovi meritavi un periodo più adeguato alle tue esigenze ed al tuo sentire, ma io voglio infilare un altro minuscolo tarlo nella tua testolina già corrosa dai dubbi.
E se tu fossi la migliore persona possibile per vivere in questo preciso momento storico?
Se ci fosse davvero bisogno di persone come te, lì fuori?


"Anche se il timore avrà sempre più argomenti, tu scegli la speranza.”
(Lucio Anneo Seneca)